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Oggi vi racconteremo la storia di Carlo Goldoni, nato 315 anni fa a Venezia, esattamente il 25 febbraio 1707 in una famiglia borghese d’origine modenese per parte paterna. In difficoltà finanziarie in seguito agli sperperi del nonno paterno Carlo Alessandro, il padre Giulio si trasferì a Roma per studiare medicina, lasciando Carlo con la madre Margherita Salvioni. Pare non fosse riuscito a conseguire la licenza di medico, ma divenne comunque farmacista ed esercitò la professione a Perugia, richiamando a sé tutta la famiglia.
Goldoni ebbe modo di formarsi dunque dapprima nella città umbra, venendo seguito inizialmente da un precettore per poi a frequentare un collegio gesuitico, e alfine a Rimini (dove nel frattempo s’erano trasferiti i genitori), studiando presso un istituto gestito dai domenicani prima e presso un insegnante domenicano privato, tal Candini, dopo. Di questo periodo è noto l’episodio della fuga da Rimini a Chioggia al seguito di una compagnia di comici.
Tornato con la madre a Venezia nel 1721, fece praticantato presso lo studio legale dello zio Giampaolo Indric. Nel 1723 passò al collegio Ghislieri dell’Università degli Studi di Pavia grazie a una borsa di studio offerta dal marchese Pietro Goldoni Vidoni, protettore della famiglia, ma ne venne espulso prima di concludere il terzo anno per essere stato l’autore di un’opera satirica ispirata ad alcune fanciulle della borghesia locale. Fu poi a Udine e a Vipacco al seguito del padre, medico del conte Francesco Antonio Lantieri; qui si recò nel 1727 per un periodo di quattro mesi. Verso la fine del 1783, nella sua opera Mémoires, definì la sosta come una “scampagnata”, caratterizzata ogni giorno da un “abbondantissimo” trattamento gastronomico; in particolare cita: “un certo vino rosso che era definito crea-bambini, offrendo pretesto per piacevoli scherzi”.
Ebbe così inizio un periodo piuttosto avventuroso della sua vita e, dopo aver ancora seguito il padre in Friuli, Slovenia e Tirolo, riprese gli studi presso l’Università di Modena ma fallì a causa di una crisi depressiva.
Nel 1729 si trasferì a Feltre per svolgere l’attività di coadiutore della Cancelleria criminale. In questo periodo soggiornò presso Villa Bonsembiante a Colvago di Santa Giustina, dove, in forma ancora dilettantesca, scrisse per il carnevale del 1730 due intermezzi comici – Il buon padre (poi intitolato Il buon vecchio), che andrà perduto, e La cantatrice – con cui debuttò al Teatro de la Sena di Feltre. La passione per il teatro caratterizzava già la sua inquieta esistenza. Con l’improvvisa morte del padre nel 1731 si dovette prendere carico della famiglia: tornato a Venezia, completò gli studi a Padova e intraprese la carriera forense.
Nel 1734 incontrò a Verona il capocomico Giuseppe Imer e con lui tornò a Venezia dopo aver ottenuto l’incarico di scrivere testi per il teatro San Samuele, di proprietà Grimani. Nacquero così le prime tragicommedie scritte dal neo-avvocato per questa compagnia a partire da Belisario del 1734, Don Giovanni Tenorio del 1735 fino a Giustino del 1738. In questo periodo intrecciò una burrascosa relazione con l’attrice Passalacqua. Successivamente, seguendo a Genova la compagnia Imer, conobbe e sposò Nicoletta Conio. Con lei Goldoni tornò a Venezia.
Nel 1738 Goldoni diede al teatro San Samuele la sua prima vera commedia, il Momolo cortesan, con la sola parte del protagonista interamente scritta. A Venezia, dopo la stesura della sua prima commedia con tutte le parti interamente scritte, La donna di garbo (1742-43), fu costretto a fuggire a causa dei debiti.
Continuò a lavorare nel teatro durante la guerra di successione austriaca curando gli spettacoli di Rimini occupata dagli austriaci; poi soggiornò in Toscana a Pisa (1744-1748) praticando principalmente l’attività di avvocato.
Goldoni non abbandona i contatti con il mondo teatrale e fu convinto dal capocomico Girolamo Medebach a sottoscrivere un contratto come scrittore per la propria compagnia che recitava a Venezia al teatro Sant’Angelo. Nel 1748 torna a Venezia e fino al 1753 scrive per la compagnia Medebach una serie di commedie, in cui, distaccandosi dai modelli della commedia dell’arte, realizza i principi di una “riforma” del teatro. A questo periodo appartengono L’uomo prudente, La vedova scaltra, La putta onorata, Il cavaliere e la dama, La buona moglie, La famiglia dell’antiquario e L’erede fortunata: qui, tranne nell’ultima, emergono le polemiche sulla novità del teatro goldoniano e la rivalità con l’abate Pietro Chiari.
Nel 1750 realizza inoltre le famose sedici commedie in un solo anno (frutto di una scommessa con il suo pubblico e con Medebach): Il teatro comico (primo importante esempio di teatro nel teatro e che si può considerare il manifesto della sua riforma teatrale), Le femmine puntigliose, La bottega del caffè, Il bugiardo, L’adulatore, Il poeta fanatico, La Pamela (tratta dal romanzo di Samuel Richardson), Il cavaliere di buon gusto, Il giuocatore, Il vero amico, La finta ammalata, La dama prudente, L’incognita, L’avventuriere onorato, La donna volubile e I pettegolezzi delle donne.
L’attività per il Medebach continuò poi con Il Molière, L’amante militare, Il feudatario, La serva amorosa, fino a La locandiera e a Le donne curiose (in difesa della massoneria). Dopo aver rotto con il Medebach, Goldoni assume un nuovo impegno nel 1753, questa volta con il teatro San Luca, di proprietà Vendramin. Comincia quindi un periodo travagliato in cui Goldoni scrive varie tragicommedie e commedie. Deve adattare i propri testi innanzitutto per un edificio teatrale ed un palcoscenico più grandi di quelli a cui era abituato, e per attori che non conoscevano il suo stile, lontano dai modelli della commedia dell’arte: fra le tragicommedie ebbe un gran successo la Trilogia persiana; tra le commedie si possono ricordare La cameriera brillante, Il filosofo inglese, Terenzio, Torquato Tasso ed il capolavoro Il campiello.
Ebbe grandi risultati artistici con Gl’innamorati, commedia in italiano e in prosa, con I rusteghi, in veneziano e in prosa e con La casa nova e La buona madre. Nel 1761 Goldoni fu invitato a recarsi a Parigi per occuparsi della Comédie Italienne. Vitale fu l’ultima stagione per il Teatro San Luca, prima della partenza, dove produsse La trilogia della villeggiatura, Sior Todero brontolon, Le baruffe chiozzotte e Una delle ultime sere di carnovale.
Giunto a Parigi nel 1762, Goldoni aderì subito alla politica francese, dovendo anche affrontare varie difficoltà a causa dello scarso spazio concesso alla Commedia Italiana e per le richieste del pubblico francese, che identificava il teatro italiano con quella commedia dell’arte da cui Goldoni si era tanto allontanato. Goldoni riprese una battaglia di riforma: la sua produzione presentava testi destinati alle scene parigine e a quelle veneziane.
Goldoni insegnò l’italiano alle figlie del re di Francia Luigi XV a Versailles e nel 1769 ebbe una pensione di corte. Tra il 1771 e il ’72 scrive due opere – Le bourru bienfaisant e L’avare fastueux – in occasione del recente matrimonio tra il Delfino, futuro Luigi XVI, e Maria Antonietta d’Austria. Tra il 1784 e l’87 scrisse in francese la sua autobiografia, Mémoires. La rivoluzione francese sconvolse la sua vita e, con la soppressione delle pensioni, che gli erano state concesse dal re, morì nella miseria il 6 febbraio 1793, 19 giorni prima di compiere 86 anni. Le sue ossa sono andate disperse. Il giorno dopo la sua morte, su proposta di Giuseppe Maria Chénier, il fratello di André Chénier, la Convenzione decretava che la pensione gli fosse restituita e che di conseguenza andasse all’amatissima moglie Maria Nicoletta Connio, rimasta vedova.
Goldoni fu iniziato al massimo grado della Massoneria, secondo Giordano Gamberini, che cita lo storico Carlo Francovich. Tale informazione viene ripresa anche dal veneziano Luigi Danesin, ex Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia degli Alam.
Proseguiremo iniziando un percorso conoscitivo di un’altra grande tradizione italiana, le maschere regionali di Carnevale, nate dal teatro dei burattini, dalla Commedia dell’Arte e da tradizioni arcaiche.
Per iniziare parleremo di Arlecchino, maschera lombarda molto antica.
Identificato dal suo inconfondibile costume a losanghe, il suo ruolo è di solito quello di un servitore spensierato e allegro, ma anche astuto, che agisce per contrastare i piani del suo padrone e persegue il suo interesse amoroso, Colombina, con arguzia e intraprendenza. Queste caratteristiche lo fanno assimilare al ruolo tipico del trickster.
La maschera di Arlecchino ha origine dalla contaminazione di due tradizioni: lo Zanni bergamasco da una parte, e “personaggi diabolici farseschi della tradizione popolare francese”, dall’altra.
La carriera teatrale di Arlecchino nasce a metà del Cinquecento con l’attore di origine bergamasca Alberto Naselli (o probabilmente Alberto Gavazzi) noto come Zan Ganassa che porta la commedia dell’arte in Spagna e Francia, sebbene fino al 1600 – con la comparsa del mantovano Tristano Martinelli – la figura di Arlecchino non si possa legare specificatamente a nessun attore.
L’origine del personaggio è invece molto più antica, legata com’è alla ritualità agricola: si sa per certo, infatti, che Arlecchino è anche il nome di un demone ctonio, cioè sotterraneo. Già nel XII secolo, Orderico Vitale nella sua storia Ecclesiastica racconta dell’apparizione di una familia Herlechini, un corteo di anime morte guidato da questo demone/gigante. E allo charivari sarà associata la figura di Hellequin. Un demone ancora più noto con un nome che ricorda da vicino quello di Arlecchino è stato l’Alichino dantesco che appare nell’Inferno come membro dei Malebranche, un gruppo di diavoli incaricati di ghermire i dannati della bolgia dei barattieri che escono dalla pece bollente. La maschera seicentesca evoca il ghigno nero del demonio presentando sul lato destro della fronte l’accenno di un corno.
Arlecchino entra nei palcoscenici al tempo dei saltimbanco, dei cerretani e simili che hanno percorso le piazze e le fiere italiane sin dal Medioevo.
Lo Zanni dei cerretani è presente in molte raffigurazioni (es. l’incisione della Fiera dell’Impruneta di Jacques Callot) sia anteriori che posteriori alla sua nascita come personaggio della Commedia dell’Arte.
Arlecchino è un personaggio diretto discendente di Zanni dal quale eredita la maschera demoniaca (sebbene spesso la maschera di Zanni sia stata rappresentata bianca) e la tunica larga del contadino veneto-bergamasco.
Infatti la prima incisione di Arlecchino, che si trova nel libro Composition de Rhétorique (1601 ca), di Tristano Martinelli, forse il primo Arlecchino o il primo attore che impose una forte presenza scenica a questo personaggio, porta ancora la tunica larga con molto bianco e alcune pezze colorate sparse.
Ma già sin dalle incisioni della Raccolta Fossard (1580 ca), precedenti a Martinelli, Arlecchino appare invece con un vestito molto aderente, quasi una calzamaglia; da questo alcuni deducono che Arlecchino discenda direttamente dai giocolieri di strada che notoriamente avevano il costume attillato.
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