Puntata 175 – Bunker School: L’Università di Bologna (p.te 2) | Le maschere tradizionali italiane: Gianduja

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03:29L’Università di Bologna (p.te 2)44:03Le maschere tradizionali italiane: Gianduja

Nella puntata di oggi proseguiremo con la nuova rubrica interamente dedicata al mondo della scuola e dell’insegnamento, Bunker School.

Oggi proseguiremo raccontandovi la seconda ed ultima parte della storia del più antico ateneo del mondo, l’Università di Bologna.

Come scrivono sul sito ufficiale:

Alla fine del XIV secolo (1394) si assistette all’ennesima trasformazione politica: sotto al Gonfaloniere di Giustizia e al Legato pontificio, vennero eletti tra i nobili e i popolari sedici Riformatori, protagonisti del nuovo consiglio comunale.

In questa compagine di ‘uomini nuovi’, spesso scelti tra i dottori dello Studio, si creò la nuova oligarchia cittadina che, gelosa dei suoi privilegi, causò un brusco irrigidimento sociale, terminato solo con la venuta del Bonaparte.
Anche l’Università subì in questo periodo alterazioni che ne avrebbero modificato profondamente la natura per tutta l’età moderna.

I professori divennero dipendenti pubblici, stipendiati con le entrate della Gabella Grossa (il dazio sulle merci). Questo fatto, inevitabilmente, comportò da lato l’asservimento delle cattedre e dei corsi, dall’altro l’allontanamento delle docenze straniere, che avevano arricchito nelle stagioni precedenti la qualità della didattica. Salvo poche eccezioni (erano riservate agli stranieri non più di quattro ‘letture eminenti’: Diritto Civile, Umanità, Filosofia e Medicina) soltanto i bolognesi potevano ora insegnare, in uno Studio che così veniva condannato al provincialismo e al lento scadere nell’opportunità e nell’opportunismo delle docenze locali, spesso non all’altezza del passato, soprattutto dopo che venne concesso ai nobili il diritto di insegnare solo in virtù della loro classe sociale.

Nel frattempo si assistette all’affermarsi della tenace e vincente politica della popolare famiglia dei Bentivoglio, che nel corso di poche generazioni riuscì a imporre il suo potere, accettato dai papi e stimato dalle altre corti signorili.

Bologna in questo periodo tornò a essere una metropoli culturale, fresca e vivace, ammodernata nelle sue piazze, nei suoi palazzi e nelle sue chiese.

Il Rinascimento trovò infatti pronti i signori della città e la loro cerchia di intellettuali, che a suon di poesie, pitture e musiche, legittimavano il loro potere.

Anche lo Studio gravitava attorno alla potente famiglia, in un mutuo scambio di favori e benefici, nutrito dalla stessa cultura eterogenea e poliedrica.

Dalle Università dei Legisti continuavano a uscire nomi di eccellenza come Leon Battista Alberti e Giovanni Pico della Mirandola, mentre l’Università degli Artisti si arricchì di nuove e prestigiose cattedre: Musica (la prima d’Europa), Matematica e Astronomia (1451), Lingua e Letteratura Greca (1453), Lingua e Letteratura Ebraica (1464) e Metafisica (1466).

Era la rivincita delle Lettere e della Filosofia, dell’Astronomia e della Medicina. Era l’Umanesimo.

Francesco del Pozzo, Filippo Beroaldo, Giovanni Garzoni, Alessandro Achillini, Urceo Codro, Domenico Maria da Novara, riuscirono a sedurre lo stesso Niccolò Copernico, giunto per qualche tempo a Bologna per i suoi studi giuridici, avvicinandolo al pensiero neoplatonico e neopitagorico, attraverso il quale avrebbe presto capovolto la concezione dell’universo.

Dopo la sventata congiura dei Malvezzi nel 1488, Giovanni II Bentivoglio inasprì la sua autorità.

Si fece dunque più chiaro l’atteggiamento tirannico del signore della città, che riuscì comunque a restare al potere durante il pericoloso avvicendamento delle incursioni francesi in Italia e delle brame del temibile Cesare Borgia sulla Romagna.

Non potette nulla, invece, contro l’esercito di papa Giulio II che, nel 1506, si riappropriò di Bologna e comprò la fedeltà delle grandi famiglie locali, portando a quaranta i loro rappresentanti in Senato, ma vanificandone di fatto l’autorità, che veniva consegnata integralmente al legato pontificio.

Dal canto suo, lo Studio venne pienamente sostenuto da tutti i papi del primo Cinquecento, che decisero di non cambiare la sua natura ibrida di entità gestita dalle private corporazioni studentesche e dall’istituzione pubblica.

I docenti furono premiati con l’aumento degli stipendi e addirittura si videro proclamare cavalieri aurati e conti palatini, prima da Carlo V, giunto a Bologna per essere incoronato imperatore nel 1530, poi da papa Paolo III (1536), che non poteva essere da meno.

Bologna era divenuta palcoscenico d’Europa, sul quale sfilavano abitualmente i papi, i sovrani e i loro ambasciatori, ospitati e intrattenuti nei tanti moderni palazzi delle famiglie più abbienti.

Continuavano a giungere da ogni dove anche studenti e professori che, attratti dagli ultimi richiami di una nomea universitaria prossima ad affievolirsi, venivano alloggiati anche nei nuovi collegi nazionali disseminati nei vari quartieri cittadini.

Tra questi si ricordano per la loro importanza: Erasmo da Rotterdam (1506), accolto in casa per un breve periodo dal suo professore e amico Paolo Bombace, grecista di prim’ordine; il mantovano Pietro Pomponazzi (1512-25), sostituto del maestro e rivale Alessandro Achillini sulla cattedra di Filosofia Naturale; e lo svizzero Paracelso, giunto in visita al suo maestro, il medico Berengario da Carpi.

Ma l’atteggiamento interno ed esterno della Chiesa virò bruscamente verso la metà del secolo, quando Paolo III decise di portare a Bologna il Concilio di Trento, per allontanarlo dai territori imperiali, divenuti ostili alle cause di Roma.

Dal 1547 Bologna divenne baluardo delle Controriforma e anche il suo Ateneo venne riorganizzato sulla base dei severi precetti che la caratterizzavano.

Il cardinal legato acquisì la carica di patrono dell’università, mantenendo sotto di sé come cancelliere dello Studio l’arcidiacono della cattedrale.

Questi istituirono un nuovo organismo di controllo, l’Assunteria (4 senatori), con prerogative economiche e contrattuali, spesso tolte ai Riformatori dello Studio.

Al Collegio dei Dottori non restò altro merito che esaminare i laureandi e i nuovi colleghi.

Ma chi davvero ne subì le conseguenze furono gli studenti, che persero il controllo delle loro Universitates.

Il definitivo asservimento accademico, dottrinale e disciplinare, si ebbe infine nel 1563 quando, sotto papa Pio IV, il cardinal legato Carlo Borromeo e il suo vice Pier Donato Cesi inaugurarono l’Archiginnasio.

Nel più complesso ammodernamento del centro storico, Antonio Morandi, detto il Terribilia, aveva realizzato la prima sede unificata dell’Alma Mater Studiorum, che fino ad allora aveva mantenuto l’usanza medievale di tenere le sue lezioni nelle abitazioni dei docenti e in spazi cittadini presi in affitto. In tal maniera l’intera organizzazione poteva essere controllata più facilmente e poteva essere imposto con più sicurezza l’obbligo della professione di fede, che nei fatti costrinse i tanti e potenti studenti germanici, di confessione protestante, a lasciare la città per altre università.

Il rigore controriformato e l’arma dell’Inquisizione non ebbero tuttavia effetti così negativi come altrove, anche se rimangono negli annali due celebri espulsioni: quella dello studente Torquato Tasso, allontanato nel 1564 dopo aver divulgato pungenti satire sul perbenismo di alcuni professori e colleghi universitari; e quella del docente Gerolamo Cardano, accusato di eresia e costretto, nel 1571, ad abiurare e a partire dalla città.

Quest’ultimo, assieme a Luca Pacioli, Scipione del Ferro, Niccolò Tartaglia e Lodovico Ferrari, fu un protagonista assoluto della Matematica moderna, che proprio a Bologna trovò soluzione algebrica alle equazioni di terzo e quarto grado e, successivamente, con Bonaventura Cavalieri, sviluppò la nuova disciplina assonometrica.

Lo Studio avrebbe potuto altresì brillare nell’Astronomia, ma perse quest’occasione preferendo al giovane Galileo Galilei il più modesto Giovanni Antonio Magini.

Fu invece all’avanguardia e primo in Europa nel creare una cattedra di Scienze Naturali (De simplicibus), cucita addosso al filosofo Ulisse Aldrovandi, che predispose per le sue ricerche un orto botanico apposito nel cortile del Palazzo apostolico (odierno Palazzo Comunale) e organizzò la più vasta classificazione naturalistica mai realizzata fino ad allora.

Anche la Medicina trasse dall’Ateneo cinquecentesco grandi miglioramenti. Ancora associata alla Filosofia dal lontano esempio Ippocratico, rispettato per la prima volta a Bologna, a fine Duecento, da Taddeo Alderotti, la disciplina rimaneva vincolata alle teorie dei testi aristotelici e galenici, ma con una sempre maggiore conoscenza dei segreti del corpo grazie all’esercizio della dissezione anatomica. Proprio a Bologna la pratica autoptica era riuscita a entrare a pieno titolo nelle attività didattiche grazie a Mondino de’ Liuzzi (XIV sec.), sebbene avesse trovato grandi resistenze da parte della Chiesa. Quest’ultima, ora detentrice anche del potere disciplinare, non solo accettò la prassi, ma ne incentivò il ‘tirocinio’, creando nell’Archiginnasio un teatro anatomico apposito e spronando per di più gli studenti a frequentare il limitrofo Ospedale della Morte. In tal modo, la Chirurgia potette unirsi alla Medicina, facendo emergere grandi nomi come Leonardo Fioravanti e Gaspare Tagliacozzi.

Dal canto suo, invece, il Diritto si cristallizzò in una rigida concezione penalista (il diritto penale nacque a Bologna nel 1509), tipica degli stati assolutisti, mentre continuava a laureare papi, cardinali e vescovi, tra i quali non vanno di certo dimenticati Ugo Boncompagni e Gabriele Paleotti, due canonisti bolognesi che scrissero la storia postridentina e non solo.

Il 1582 fu grazie a essi un anno davvero rivoluzionario. Il Boncompagni, divenuto dieci anni prima papa Gregorio XIII, introdusse il nuovo calendario, che ancora oggi porta il suo nome, e nel medesimo anno riuscì a elevare la sua città d’origine ad Arcidiocesi Metropolitana. Il Paleotti, invece, in veste di cardinale riformatore, oltre ai suoi profondi interventi di riorganizzazione clericale e di moralizzazione della dottrina cattolica, mise alle stampe il celebre trattato “Discorso intorno alle immagini sacre e profane”, al quale tutti gli artisti del tempo dovettero attenersi.

Tra questi vi erano anche i tre cugini Carracci che, in quello stesso 1582, fondarono la loro accademia, inaugurando proprio a Bologna una nuova stagione dell’arte europea.

Bologna all’inizio del Seicento era entrata in una lunga stagione di torpore e immobilismo.

All’esplosione demografica dovuta al benessere del secolo precedente, seguì una serie sempre più fitta di carestie ed epidemie, che spinse papa Clemente VIII a intervenire sulla gestione dei dazi commerciali, fino ad allora usati esclusivamente per pagare i docenti universitari (Gabella Grossa).

Ciò non comportò, come si potrebbe pensare, la riduzione degli stipendi e degli insegnamenti, anzi, proprio in questo periodo si assistette a un paradossale aumento delle cattedre – se ne contarono fino a 120 – che portò all’incresciosa presenza di quattro professori ogni studente. L’incremento dei corsi, oltretutto, era inversamente proporzionale alla qualità dell’offerta formativa, vincolata ai severi precetti tridentini e sempre più affidata alla scarsa attitudine intellettuale dei tanti nobili locali che riuscivano agevolmente a ottenere una docenza.

Non è un caso se proprio nel XVII nacque la maschera carnevalesca del Dott. Balanzone, tronfio giurista che pavoneggiava un sapere ormai vuoto e antiquato. Sui dottori cresceva lo sberleffo dei cittadini che godevano della loro canzonatura anche nei famosi poemi satirici Bertoldo e Bertoldino del poeta popolaresco Giulio Cesare Croce (1606-08).

Gli scolari, dal canto loro, si andavano via via provincializzando e persero definitivamente qualunque tipo di autonomia e potere dopo la soppressione, nel 1580, del rettorato studentesco.

I più facoltosi e coloro che erano spinti alla carriera ecclesiastica, inoltre, iniziarono a preferire i nuovi collegi gesuitici, che verso la metà del secolo arrivarono a creare attorno alla chiesa di Santa Lucia un vero e proprio quartiere governato dall’Ordine di Ignazio di Loyola.

La peste del 1630 non aiutò di certo questa situazione critica tanto per lo Studio quanto per la città, portandosi via un terzo della popolazione.

Si arrivò alla drastica decisione del 1668: sospendere per un ventennio le nuove nomine dei docenti.

Terminato questo lungo periodo di totale stasi, cercò in tutti i modi di intervenire l’allora arcidiacono della cattedrale, nonché cancelliere dell’Università, Antonio Felice Marsili. Nel 1689, l’erudito aristocratico sfidò apertamente il Collegio dei Dottori, accusandolo di lassismo e di incuria e proponendo una riforma del corpo docente. Quella che sarebbe potuta essere una mossa vincente fu aspramente osteggiata non solo dai professori ma anche dal Senato, troppo invischiato negli affari torbidi di un’istituzione in continua decadenza.

Da un lato dunque vi era lo Studio, impantanato nell’arrivismo locale e nei limiti che imponeva la Chiesa, dall’altro i Gesuiti che, sebbene più preparati alla modernità, rimanevano infiammati dalla propaganda ecclesiastica e dalla severità delle loro dottrine.

Solo pochi nomi riuscirono a salvarsi da questa decadenza, anche se quasi tutti finirono con l’abbandonare la città per altre sedi universitarie meglio predisposte ai nuovi orientamenti del sapere. È il caso dei medici Marcello Malpighi e Carlo Fracassati e dei matematici e astronomi Giovanni Cassini e Germiniano Montanari.

XVIII secolo – Lo Studio e l’Istituto delle Scienze
La situazione nella quale versava lo Studio a fine Seicento era tra le più drammatiche: pochi e locali studenti venivano indottrinati da nozioni antiquate e controllate dalla Chiesa.

Alcuni di essi, tuttavia, trovarono il modo di reagire, radunandosi a casa del sedicenne Eustachio Manfredi, dove nel 1690 istituirono l’Accademia degli Inquieti: circolo privato che, come molti altri in tutta Europa, divenne luogo di scambio e di confronto intellettuale.

Questo ristretto gruppo di scienziati venne poi accolto nel palazzo di Luigi Ferdinando Marsili che, tornato da una lunga esperienza tra le fila dell’esercito asburgico, aveva precedentemente tentato di ammodernare gli insegnamenti dell’Archiginnasio, proponendo una riforma sostanziale, ben più complessa di quella avanzata qualche anno prima dal fratello Antonio Felice.

Ricevuta anch’egli risposta negativa, il nobile studioso aveva così offerto i propri alloggi e le proprie risorse non solo agli Inquieti, ma anche alla neonata Accademia artistica Clementina, patrocinata come si evince dal nome dall’allora papa Clemente XI.

Quest’ultimo divenne il più convinto sostenitore degli incontri tra le due accademie che sancirono, nel 1711, la costituzione dell’Istituto delle Scienze.

Proprio grazie all’appoggio papalino Marsili ottenne dal Senato, altrimenti reticente, i fondi e il sostegno politico necessari all’autonomia e all’indipendenza del suo esperimento accademico, che poteva ora permettersi l’acquisto del cinquecentesco Palazzo Poggi, nel quale trovò e creò idonei spazi per i suoi laboratori, le aule didattiche, le gallerie espositive, la biblioteca e persino la stamperia e la rilegatoria.

Era il 1714 e l’Istituto poteva finalmente aprire i battenti di Bologna alla modernità.

Non passarono molti anni che questo “Tempio di Salomone” divenne famoso in tutta Europa, entrando nella fitta rete internazionale di scambi scientifici e di rapporti personali e professionali tra i più illustri inventori e artisti allora in circolazione.

Anche i docenti bolognesi vennero attratti da questo mondo racchiuso in un palazzo, dove era possibile analizzare e sperimentare con totale libertà intellettuale le scoperte che avrebbero illuminato e migliorato la qualità della vita delle società future. Così, gli stessi professori che la mattina tenevano lezione in Università al pomeriggio insegnavano all’Istituto – e viceversa –, portandosi dietro i loro studenti, felicissimi di poter apprendere qualcosa di nuovo oltre alle retrive lezioni che si tenevano in Archiginnasio.

Accanto alle discipline scientifiche tradizionali quali Medicina, Matematica e Astronomia, trovarono il loro posto nuove fondamentali materie: Fisica, Meccanica, Ottica, Ostetricia, Elettrochimica, Chimica e tante ancora che, comunicando le une con le altre, si davano mutuo sostegno in una moderna concezione interdisciplinare della sperimentazione e del sapere.

Antonio Maria Valsalva, Eustachio e Gabriele Manfredi, Francesco Antonio Oretti, Jacopo Bartolomeo Beccari, Francesco Maria Zanotti, Pier Paolo Molinelli, Giovanni Antonio Galli, Giovanni Battista Guglielmini e, sopra tutti, Luigi Galvani sono solo alcuni dei protagonisti di questo periodo.

Nel fermento di tale innovazione scientifica, sostenuta e patrocinata anche dal papa bolognese Benedetto XIV, potette attuarsi una ben più epocale rivoluzione socio-culturale, che portò le donne non solo tra i banchi ma anche sulle cattedre accademiche.

Come nelle associazioni parigine e londinesi anche nell’Istituto nostrano, tra le fila degli iscritti, vennero subito accolte le donne, da secoli invece escluse dai più ufficiali consessi maschili universitari.

Bologna in questo è un caso a sé. Persino nei periodi più misogini l’Ateneo ha infatti vantato la storica presenza medievale di mogli, figlie e sorelle di accademici, che in casi straordinari erano divenute lettrici, ovvero insegnanti (Accorsa, Bettisia Gozzadini, Novella Calderini, Dorotea Bocchi).

Non è quindi solo un caso che proprio l’Alma Mater abbia dato per prima ad una donna una cattedra moderna. Era il 1732 quando la ventunenne Laura Bassi, col tripudio collettivo di tutta la città, divenne docente in Filosofia.

La seguirono tante altre nello studio e nell’insegnamento come Faustina Pignatelli, Anna Morandi Manzolini, Cristina Roccati, Clotilde Tambroni e Maria Dalle Donne, in una staffetta che tuttavia faticò a scavalcare i tanti ostacoli della storia, che rimasero sempre più alti per la corsa delle donne nel già difficile e complesso percorso universitario.

Nel 1794, spinti dagli entusiasmi rivoluzionari francesi, gli studenti Luigi Zamboni e Giovanni Battista De Rolandis, provarono invano a sovvertire l’assolutismo secolare della Chiesa, incitando il popolo bolognese alla ribellione.

I tempi non erano ancora maturi per un’insurrezione di tale portata e i due, prontamente arrestati, morirono per questo maldestro e precoce tentativo, che li avrebbe comunque immortalati come i primi martiri del Risorgimento italiano.

Poche settimane dopo l’impiccagione di De Rolandis (Zamboni era morto l’anno prima probabilmente suicida), nel 1796 le truppe napoleoniche entrarono in città e posero nelle mani del giubilante Senato il governo locale, strappandolo dalla potestà del legato pontificio.

L’entusiasmo degli aristocratici era giustificato anche dal fatto che Bologna era stata elevata a capitale della Repubblica Cispadana, titolo che tuttavia mantenne solo per pochi mesi, ossia fino a quando, creatasi la Repubblica Cisalpina, fu fatta capitale la più moderna Milano (luglio 1797).

Per quanto riguarda l’Alma Mater, il corpo docente fu costretto a giurare fedeltà alla Costituzione repubblicana e chi non si prestò ad aderire, tra gli altri Luigi Galvani, Giuseppe Mezzofanti e Clotilde Tambroni, venne allontanato dalla professione.

La laicità della rivoluzione cancellò la didattica di Teologia e di Diritto canonico, e concentrò l’amministrazione dello Studio nell’organismo centralizzato del Dipartimento del Reno, abrogando le secolari corporazioni delle Universitates degli studenti e del Collegio dei Dottori.

Ma è con la creazione della Repubblica Italiana (1802-05), dopo la breve parentesi austriaca, che fu emanata una vera e propria legge nazionale relativa all’istruzione pubblica.

Nel 1802 vennero riconosciute e trasformate in statali solo le università di Bologna e di Pavia, la cui offerta didattica veniva limitata a tre facoltà professionalizzanti: Fisica-Matematica, Medicina e Legge.

Mentre le prime due vennero affidate al Ministero dell’Istruzione, quella giuridica fu sottoposta al controllo del Ministero dell’Interno, in un’ottica di forte normativizzazione e legalitarismo, per la quale si affidava al Rettore, scelto tra i professori, un ruolo sanzionatorio e coercitivo.

Dopo questa profonda trasformazione strutturale, nel 1803 si decise di spostare l’Ateneo bolognese dalla storica sede dell’Archiginnasio al decentrato Palazzo Poggi, già allestito nel secolo precedente, con laboratori, biblioteche, uffici e aule didattiche ad opera dell’Istituto delle Scienze.

Quest’ultimo venne sciolto e se ne ricavò da un lato l’Istituto nazionale per la promozione di attività scientifiche, dall’altro l’Accademia delle Belle Arti, ricollocata nel vicino convento di Sant’Ignazio di Loyola che, come molti altri in città e in tutto il Paese, era stato soppresso dalle riforme napoleoniche.

L’intero quartiere nord-orientale si trasformò così nel nuovo distretto culturale cittadino, dove a suo tempo era già stato inaugurato il Teatro Comunale (1763). Vennero aperti il Liceo filarmonico (poi Conservatorio), negli spazi dell’ex convento di San Giacomo Maggiore, la Pinacoteca, legata all’Accademia, e gli orti botanico e agrario presso la cinquecentesca Palazzina della Viola.

La scossa subita dall’Università e dalla citta tutta perdurò anche dopo il declino del regno italico (1805-14) e nel primo decennio della Restaurazione papalina.

Lo Studio mantenne il suo assetto napoleonico, ma furono ovviamente ripristinate le cattedre teologali e gli esercizi spirituali.

Una radicale riconversione all’ideologia cattolica si ebbe poi, nel 1824, con la Constitutio qua studiorum methodus di papa Leone XII, nella quale si imponeva alle quattro facoltà istituite, Teologia, Legge, Medicina-Chirurgia e Filosofia, l’asservimento ai valori religiosi, in un’epoca che nel resto d’Europa stava invece portando alle verità del Positivismo.

A capo delle amministrazioni universitarie venne posta una Sacra Congregazione composta interamente da cardinali, sotto i quali i rettori, anch’essi ecclesiastici, diventarono vigili osservatori della condotta morale del personale accademico.

I pochi studenti iscritti in questo periodo, dal canto loro, dovevano presentarsi con un certificato di buona condotta firmato dal loro parroco, accettando in seguito il controllo assoluto su tutti gli aspetti della loro vita pubblica e privata.

Nonostante questo enorme strappo dalla realtà e dal progresso contemporaneo, si possono rintracciare anche in quegli anni alcuni grandi nomi dell’Ateneo come: il giurista Giuseppe Ceneri, il naturalista Camillo Ranzani e, soprattutto, il clinico Francesco Rizzoli, fondatore dell’omonimo Istituto ortopedico, ancora oggi tra i più all’avanguardia al mondo.

Non mancò una frangia di oppositori a questa deriva autoritaria, che solo per pochi mesi riuscì a imporsi tramite le rivolte carbonare del 1831. Dopo la breve parentesi delle Province Unite, Roma, riappropriatasi dei suoi domini, iniziò a considerare, con motivi fondati, Bologna e la sua università come un covo di rivoluzionari.

Quando infatti, nel 1849, venne proclamata la Repubblica Romana, Bologna resistette con orgoglio alla discesa degli austriaci, che tuttavia riuscirono a recuperare i territori papali e a riconsegnarli al loro legittimo signore.

Ma i tempi oramai erano maturi per una più organizzata rivoluzione collettiva, che vide tra i suoi maggiori sostenitori gli studenti e i professori dell’Alma Mater.

Infine, l’11 marzo 1860 i bolognesi, liberatisi definitivamente l’anno prima dall’egemonia pontificia, votarono per l’annessione al Regno sabaudo.

Nell’esultanza dell’annessione alla corona savoiarda, la città si riorganizzò per respirare il futuro, ammodernando il suo tessuto edilizio e urbanistico e svecchiando la sua classe dirigente, che sarebbe stata poi coinvolta nella fondazione del Regno italico.

Dal canto suo l’Alma Mater dovette invece aspettare quasi un trentennio per raggiungere un simile cambiamento.

Nonostante l’istituzione di nuove Facoltà (Giurisprudenza, Filosofia-Filologia, Matematica e Medicina), dalle quali veniva esclusa quella di Teologia; nonostante l’inaugurazione delle moderne cliniche universitarie nell’ex convento di Sant’Orsola (1869); nonostante l’attivazione delle scuole specialistiche (Magistero, 1876; Medicina veterinaria, 1876; Applicazione per ingegneri, 1877; e Scienze politiche, 1883), l’intero organismo potette fare affidamento solo su pochi nomi di prestigio, primo tra tutti il rettore Giovanni Capellini, che col supporto di alcuni politici locali, come Marco Minghetti, potettero intervenire per migliorare lo stato cronico d’arretratezza nel quale ancora versava l’Alma Mater Studiorum.

Quando, nel 1860, Giosuè Carducci fu chiamato a ricoprire la cattedra di Letteratura italiana, l’Università stava affrontando uno dei periodi più difficili della sua lunga storia. Da due secoli trattenuta nei dogmi della Chiesa, non era rimasto nulla del suo prestigioso passato.

Ma con l’Unità, avendo l’Italia bisogno di rintracciare le sue radici, Bologna si presentò alla modernità come l’antica città comunale nella quale era sorta la prima università d’Occidente.

Così, il 12 giugno 1888, nel cortile dell’Archiginnasio Carducci inaugurava i festeggiamenti dell’ottavo centenario dell’Alma Mater Studiorum, sancendone la riscossa e il ritorno tra i grandi atenei del Mondo.

Nello stesso periodo si stavano tenendo in città le Esposizioni emiliane, in gran parte sistemate nei nuovi Giardini Margherita (inaugurati nel 1879) a cui affluivano visitatori da ogni dove grazie anche all’allargamento della rete ferroviaria e della stazione (1871).

La città sembrava vivere finalmente appieno la vitalità del periodo.

Si aprivano eleganti e ariosi quartieri, si creavano lunghi viali alberati, si inauguravano musei cittadini e in questo clima di rinnovamento, dominato dal Comitato per Bologna Storica e Artistica, anche l’Università cominciò a pianificare la sua espansione.

Sotto i rettorati di Giovanni Capellini e di Augusto Murri si iniziò a operare in parallelo al più esteso Piano regolatore cittadino. Quando poi, sotto Vittorio Puntoni, si riuscì a ottenere la Prima convenzione edilizia tra Ateneo ed enti locali (divenuta legge nel 1899) si potette creare un moderno distretto di istituti scientifici sulla nuova via Irnerio (Mineralogia, Anatomia, Fisica e Botanica).

Il rilancio dell’Università, che vide raddoppiare i suoi studenti (670 nel 1880, 1368 nel 1890) passava anche dalla maggiore notorietà dei suoi professori, come lo stesso Murri, Enrico Panzacchi, Giacomo Ciamician, Federigo Enriques e Giovanni Pascoli.

Si arrivò dunque ad una Seconda Convenzione (1910) per l’erezione di altri istituti nel quartiere compreso tra Palazzo Poggi e i nuovi viali, aperti dopo l’abbattimento delle duecentesche mura.

La creazione di questa macro area venne però interrotta dalla Prima Guerra Mondiale, che richiamò al fronte numerosi professori e studenti e virò le risorse economiche predisposte sulla causa bellica.

Si dovettero aspettare gli accordi della Terza Convenzione tra il regime fascista e l’Ateneo (1929), perché i lavori continuassero sotto al lungo rettorato di Alessandro Ghigi.

Questi, approfittando delle simpatie politiche e imponendo agli accademici il giuramento al regime, riuscì ad avere grandi finanziamenti, che permisero non solo l’inaugurazione degli Istituti precedentemente pensati (Economia e Politica agraria, Medicina Legale, Chimica, Scienze Farmaceutiche, Igiene, Patologia Generale, Zoologia-Anatomia comparata-Istologia-Antropologia e varie Cliniche mediche al Sant’Orsola), ma anche la costruzione, dall’altro capo della città, di Ingegneria e Chimica industriale, che assieme a Economia e Commercio, Agraria e Veterinaria erano state trasformate nel frattempo in vere e proprie facoltà (1932-37).

L’Ateneo, infatti, aveva riorganizzato la sua struttura, assimilando quella che ha detta dello stesso Mussolini poteva essere considerata la riforma “più fascista” mai presentata, ovvero la riforma scolastica del ministro Giovanni Gentile (1923).

Dopo la messa in atto della rigida gerarchizzazione pedagogica, che aveva elevato le discipline umanistiche a fondamenta della futura classe dirigente, epurando dai livelli superiori di studio –e quindi di occupazione- i meno abbienti, furono varate anche le leggi razziali (1938) che allontanarono dall’insegnamento nel caso bolognese ben 11 ordinari e numerosi liberi docenti e assistenti, in uno Studio che tra i primi in Europa aveva istituito nel 1464 una facoltà proprio dedicata alla storia, alla lingua e alla letteratura ebraiche.

Quando finalmente cadde il regime, nel 1943, Ghigi fu destituito e rifiutò il nuovo mandato offertogli dalla Repubblica di Salò. Al suo posto venne eletto il grecista Goffredo Coppola, una delle pagine più nere della storia dell’Università. Coppola, fedelissimo a Mussolini, lo seguì nella sua fuga, andando incontro al suo stesso destino.

Nel frattempo Bologna stava subendo i bombardamenti tra i più devastanti d’Italia, che causarono il crollo di secolari edifici, tra cui parte dell’antica sede universitaria dell’Archiginnasio.

Molti studenti e professori si schierarono contro il regime ed entrarono tra le fila partigiane in una città che venne poi premiata per il suo valore e la sua strenua resistenza.

Il 21 aprile 1945 Bologna era di nuovo libera.

L’Ateno non poté celebrare in modo più simbolico la rivincita dei giusti, eleggendo come primo rettore della rinascita Edoardo Volterra, docente di diritto, nel ‘38 allontanato per le sue origini ebraiche.

Era ora il tempo della ricostruzione e anche l’Università sotto il rettorato di Felice Battaglia rimise mano a nuovi progetti edilizi (Istituti di Matematica e Geometria e Facoltà di Economia e commercio), verificando negli anni successivi un forte incremento delle immatricolazioni.

Tra i nuovi studenti si assistette alla sempre più massiccia presenza di donne (26% del totale), soprattutto a seguito della trasformazione in Facoltà della Scuola di Magistero (1955).

Ma nonostante questa riqualificazione urbanistica e questi numeri in ascesa, l’offerta formativa non brillò particolarmente nel secondo dopoguerra e quando il quadro politico e sociale incominciò a mutare, studenti e precari iniziarono a dimostrare i primi attriti con l’organizzazione centrale, arrivando a ottenere le dimissioni dello stesso Battaglia (1968).

Le proteste mondiali, dilagate anche in Italia, trovarono il disappunto di un noto figlio dell’Alma Mater, Pier Paolo Pasolini, che assieme a Giorgio Bassani, Francesco Arcangeli e Attilio Bertolucci si era formato alla cattedra di Roberto Longhi.

Eppure quelle prime manifestazioni e occupazioni portarono già nel 1969 a una svolta decisiva nel campo dell’istruzione e della vita sociale tutta: la Legge Codignola, che finalmente liberalizzava l’accesso alle facoltà universitarie.

Il rettore Tito Carnacini vide quasi raddoppiato il numero degli iscritti bolognesi dall’inizio alla fine del suo mandato (26.000 nel 1968, 50.000 nel 1976).

Malgrado ciò si passò ben presto dalle rivendicazioni e dalle occupazioni pacifiche agli attentati e al terrore: erano iniziati gli Anni di Piombo.

Anche alcune frange estremiste e politicizzate di studenti vennero coinvolte in questa spirale di antagonismo, andando a minare le giuste cause delle rivolte più moderate. In questa situazione, che vide impiegato anche l’esercito, venne ucciso nel 1977 per mano di un carabiniere lo studente Francesco Lorusso.

L’Alma Mater, dal canto suo, stava portando avanti quell’indispensabile iter iniziato negli anni ’50, che puntava a ristabilire forti legami con le altre realtà universitarie, nazionali e internazionali: basti ricordare l’inaugurazione della prima sede europea della Scuola di specializzazione post-laurea della prestigiosa John Hopkins University (1955) o la creazione a Casalecchio di Reno del consorzio interuniversitario Cineca (1967), tra i primi a connettere, attraverso le nuove tecnologie informatiche, atenei, enti di ricerca, ministeri e policlinici.

Ma l’anno che davvero sancì il ritorno dell’Università bolognese al centro del discorso accademico internazionale fu il 1988.

Durante i festeggiamenti del suo IX Centenario, l’allora Rettore Fabio Alberto Roversi-Monaco accolse 430 rettori europei (oggi se ne contano 802 di 85 nazioni) che firmarono la Magna Charta Universitatum, atto col quale l’Europa si impegnava a innalzare il valore dello studio a elemento fondativo del progresso e del benessere dell’umanità.

Un anno dopo le celebrazioni del suo IX Centenario (1988), anche l’Alma Mater Studiorum potette beneficiare della legge 168 del 1989, con la quale si sanciva l’autonomia organizzativa, didattica e finanziaria di tutti gli atenei nazionali.

L’università bolognese ristabiliva così quelle prerogative di libertà e indipendenza che l’avevano caratterizzata nei gloriosi secoli medievali e intraprese, prima in Italia, il progetto che avrebbe portato, all’inizio del nuovo millennio, alla creazione del più esteso Multicampus italiano, quello romagnolo.

Sempre alla fine del XX secolo (1999), Bologna tornò ad essere sede di un incontro fondamentale per lo sviluppo di un rinnovato sodalizio interuniversitario. All’interno della nuova Aula Magna, ventinove ministri dell’Istruzione superiore europei sottoscrissero la Dichiarazione di Bologna: un lungo processo di riforma (Processo di Bologna) col quale si arrivò nel 2010 a definire una ristrutturazione omogenea dei sistemi universitari dei paesi aderenti (oggi se ne contano 48).

La storica apertura della città e della sua università ai circuiti internazionali veniva così ristabilita, in una nuova dimensione europea e globale, sempre più attenta alla funzione primaria dello studio e ai nuovi obiettivi tecnologici ed ecologici del domani.

Proseguiremo poi raccontandovi della maschera piemontese di Gianduja con la sua storia e la sua tradizione e concluderemo parlando di Sant’Anselmo da Lucca patrono di Mantova che si festeggia oggi.

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